Di arte impersonale son piene le fosse. È ora di cambiare

A dialogare con il diacono Aleksej Trunin è Ol’ga Šalamova, iconografa di San Pietroburgo. Aleksej Trunin (1974), che dopo aver concluso gli studi in seminario presta servizio nella chiesa della «Madre di Dio gioia di tutti gli afflitti» a Mosca, dal 1997 al 2004 ha lavorato sotto la guida di Ovčinnikov al Centro di restauro Grabar’, e ha recentemente ultimato gli affreschi della chiesa dell’Arcangelo Michele ad Achalkalaki, in Georgia, di cui riportiamo alcune immagini. A tema, nella conversazione (che riprendiamo dall’almanacco «Dary», n. 6, 2020), il valore dell’arte sacra oggi, la sua irriducibilità a una tecnica «leccata», minuziosa, a un «mestiere» che perda di vista l’unitarietà dell’opera, il suo afflato spirituale e artistico.

Di arte impersonale son piene le fosse

Aleksej Trunin (1974).

Che cos’è per lei l’arte sacra?
L’essenza dell’arte sacra consiste nel fissare in qualche modo l’epifania divina. Nel fissare il bagliore, la nascita, l’esistenza di un altro mondo, di un’altra realtà. Nel testimoniare Dio attraverso i colori. Questa è l’esperienza della Chiesa, e anche la mia personale, per quanto minima. L’icona antica, anche la più piccola, è sempre una testimonianza di questa esperienza.
Perché gli antichi maestri non ci hanno lasciato dei vademecum su come dipingere le icone? Sarebbe comodo! Ma loro sapevano che senza esperienza personale non si ottiene niente, non esistono ricette, verrebbe fuori un falso. Mentre l’icona autentica nasce dall’esperienza personale. L’ha detto bene un artista contemporaneo, Aleksandr Livanov: «Se trovi una soluzione artistica senza fatica e neppure sofferenza, vuol dire che è di altri, oppure è qualcosa di tuo, del passato»…
Provate un po’ a entrare in una chiesa nuova: è tutto oro, luccica – e neanche un volto vivo!..

Che cos’è necessario perché la decorazione pittorica di una chiesa possa dirsi riuscita?
Innanzitutto, la sintonia tra committente e artista. Il committente non può dire: «Voglio così!», perché in realtà non sa che cosa vuole, e non può saperlo, non essendo un artista. Un mio amico ha argutamente osservato che «quando un prete parla di Andrej Rublev, in realtà ha in mente il kitsch odierno»… Solo se esiste una fiducia reciproca è possibile lavorare proficuamente.
Con il vescovo di Achalkalaki sono in contatto già da dieci anni. Gradualmente abbiamo cominciato a capire insieme che cosa volevamo rappresentare, come potevano essere gli affreschi. Ma monsignor Nikolaj non mi ha mai imposto nulla…
La chiesa dell’Arcangelo Michele è stata costruita nel 2005, e solo nel 2012 ho cominciato a fare qualche prova per gli affreschi. Preferisco sempre fare delle prove direttamente sulla parete, per capire come andrà il lavoro, e anche perché il committente possa avere un’idea del risultato. Dapprima ho dipinto la Madre di Dio Orante nel santuario. Dopo due anni, nel registro sottostante, i vescovi. Allora è diventato chiaro come bisognava impostare questo spazio: è stata realizzata un’iconostasi composta da quattro icone: quella più a destra, l’arcangelo Michele, indica la dedicazione del tempio. Anche quando nel 2018 ho affrescato la navata, il primo soggetto è stato l’arcangelo Michele con la spada, a guardia del paradiso, inizio e fine dell’Antico Testamento. Subito dopo segue il Natale, che apre il ciclo neotestamentario che cinge la chiesa lungo tutto il perimetro e si conclude con la scena della Discesa agli inferi: e torna di nuovo una raffigurazione dell’angelo – stavolta presso il sepolcro vuoto di Cristo. Questa unitarietà di soluzione è stata una sorpresa anche per me, al termine dei lavori…

Achalkalaki

La chiesa dell’Arcangelo Michele ad Achalkalaki (Georgia).

Ha cercato delle fonti di ispirazione per questo lavoro?
Sì, gli affreschi dello Svaneti: il loro ritmo, composizione e capacità di sintesi. E anche il colorito tipico della Georgia. Senza questi elementi non sarei riuscito a «far vivere» gli affreschi sulle pareti, sarebbero sembrate delle riproduzioni di importazione moscovita. Mi ha aiutato moltissimo, naturalmente, tenermi costantemente in contatto con il mio maestro, Adol’f Ovčinnikov, a cui ho mostrato le foto di tutte le fasi di lavoro, e che mi ha dato numerosi utili consigli, proprio grazie all’immensa esperienza da lui accumulata nell’arco di 60 anni di lavoro.

Per molti artisti la compiutezza di un’opera consiste nell’accuratezza e ricchezza di particolari che mostra. Per lei, che cos’è?
È importante la coesione di tutti gli elementi. Che le composizioni non siano staccate, ma si sorreggano a vicenda, che la chiesa si trasformi in un unico organismo vivente. Il problema della compiutezza dipende dall’unitarietà fra tutte le figure e soggetti. Spesso l’indice principale della compiutezza sembra l’accuratezza con cui ogni singolo millimetro di parete è tinteggiato. Ma in questo caso Teofane il Greco dovrebbe essere il massimo della sciatteria, guardi un po’ che colpi di pennello dà a Novgorod. E come mai? Che cosa gli costava tinteggiare accuratamente? Al limite, se non ne aveva voglia, poteva metter sotto i suoi aiuti… No? Teofane dipinge così per mantenere il ritmo interiore dell’affresco, infondere vita a queste pareti. L’accuratezza qui è controindicata! Lui invece è teso a unire insieme tutti gli elementi, a «calamitarli», come dice Ovčinnikov. E non solo Teofane, tutta la sua grande epoca vede il segno principale della qualità nella capacità di fissare le esperienze vissute. Adesso invece si dipinge con meticolosità, particolare dopo particolare, ed è tutto così stucchevole. Ma non si può dipingere nella stessa maniera una figura umana, ad esempio un apostolo, e le architetture sullo sfondo. Non sono la stessa cosa! Di arte impersonale son piene le fosse. È ora di cambiare. Perché è un contro-annuncio cristiano, e non da poco, mi creda!
La sciatteria in arte è l’assenza di esperienza interiore nell’artista, e non una mancanza di accuratezza. Quando parliamo di arte, l’esigenza della creatività è sottintesa. Solo nella Chiesa questa esigenza sembra suonare strana. Come se qui fosse stato tutto già previsto, non resti che copiare e il risultato è assicurato. No, invece!

Dobbiamo capirlo una volta per tutte: un’icona fredda, intellettuale, impersonale non può rendere testimonianza di Dio. La nostra compiutezza è falsa, nella misura in cui è puramente formale.

Di arte impersonale son piene le fosse

L’interno della chiesa dev’essere percepito come un’altra dimensione, in cui l’uomo fa ingresso. Con che mezzi si può ottenere questa percezione?
Non è facile rispondere. Iniziamo dicendo che l’artista in questo caso dipende molto dall’architettura. Purtroppo, la maggior parte delle nostre chiese è tardiva, del XVIII-XIX secolo, e perfino lo stile del XVI secolo non vi si adatta, resta estraneo; per non parlare poi dell’architettura sacra odierna, generalmente senza gusto…
Inoltre, dev’esserci una gerarchia dei materiali. Nei progetti dove non si lesinano i finanziamenti, in genere, è tutto dorato. Ma in questo modo anche il materiale più costoso, prezioso, viene svalutato. Guardi per esempio Santa Sofia di Kiev, con l’Orante nella conca absidale realizzata in mosaico d’oro: tutto il rimanente spazio è decorato ad affresco. Forse non avevano abbastanza soldi? No di certo. Ma esiste una gerarchia di materiali, corrispondente al programma decorativo e legata a una concezione ideale: la monocromia degli affreschi è voluta per sottolineare il colore dei mosaici. E in tal modo i personaggi secondari vengono subordinati al primato della gigantesca figura della Madre di Dio.

Lei ha imparato a dipingere copiando. Com’è possibile, basandosi sulle antiche tradizioni, realizzare qualcosa di proprio?
Copiare, sotto la guida di Ovčinnikov, significa innanzitutto addentrarsi nell’opera d’arte. Spesso, con le migliori intenzioni, si riduce l’icona a un oggetto devozionale, si ritiene che pregare ardentemente mentre la si dipinge sia sufficiente, una sorta di garanzia della sua riuscita. Ma questo significa sottrarsi alla serietà di un lavoro professionale. L’oro luccica, i colori brillano, il santo sorride – che vogliamo di più?
Amici, questo non è imparare! Questo non è copiare!

Nel processo di copia dobbiamo immedesimarci con l’opera. È qui il seme sorgivo dell’arte. La devozione non c’entra per nulla. Dobbiamo imparare a conoscere il ritmo della pittura dell’originale, il rilievo della pennellata e della base di gesso, e perfino la fattura del retro della tavola.

Solo in questo modo si può intraprendere un lavoro serio, mentre tutti partono in quarta dipingendo la Trinità, magari prendendo a modello una brutta riproduzione…

Di arte impersonale son piene le fosse

Ci parli un po’ di come lavora. Che cos’è la cosa più importante quando si dipinge?
Beh, innanzitutto, buttar via cellulare, tablet, farsi un po’ di provviste di cibo e ritirarsi nel bosco. Ci sono giorni in cui non riesci praticamente a far niente. Eppure capisci che anche in giornate così la parete sta crescendo dentro di te. Il giorno dopo nel giro di due o tre ore magari riesci a dipingere una composizione molto intensa. Ma questo successo ha un fondamento: per esperienza posso dire che avviene solo quando lavori con grande concentrazione…
Il metodo di lavoro è quello solito: dapprima stendo i fondi in tutta la chiesa. Non disegno figurine, compongo le campiture di colore bilanciandone il peso. Poi comincio a lavorare sulla forma, senza perdere di vista l’unità dell’insieme.
A differenza del profano, che ha una visione frammentaria, l’artista ha una visione complessiva, d’insieme. Che cos’è il «colpo d’occhio»? La capacità di guardare la parete sud, e con la coda dell’occhio vedere anche quelle est e ovest. E che cosa si vede? Non le figure, ma l’interazione delle diverse parti della parete, il dinamismo delle masse e i meccanismi che le mettono in movimento.
Un altro aspetto importante è la tecnica pittorica. I colori ai silicati hanno dato il colpo di grazia alle nostre già povere doti pittoriche. Questi materiali sono nati per tinteggiare le case, nessuno mai aveva ipotizzato che potessero essere impiegati in pittura. Io cerco di lavorare con materiali naturali: tempera alla caseina o all’uovo. È più complicato, ma ne vale assolutamente la pena!

Come definirebbe la professionalità nel lavoro?
È soprattutto una questione di grandezze, di equilibrio di forze, di composizione…E poi ci deve essere professionalità nel difendere ciò che tu ritieni tuo obiettivo artistico. Ed è difficile, molto. Quanti ti mostrano le foto dei loro dipinti, sospirando: «Capiscimi, amico mio, lì c’era un parroco tale…». A me, ad esempio, è capitato che abbiano imbiancato l’interno di due chiese che avevo affrescato.

In questo contesto, che prospettive vede per l’arte sacra?
È stato detto molto acutamente: «La nostra cultura russa odierna è volta a ricreare il passato». Nella Chiesa, questa è la tendenza imperante! Siamo inclini a tornare all’epoca sinodale con elementi dell’estetica del XV-XVII secolo. Ma per quanto ben dipinte, opere del genere saranno sempre un’imitazione! La nostra è l’epoca del postmoderno. Eppure noi parliamo di Fede, Eternità, Salvezza. Non ho alcuna velleità di insegnare niente a nessuno, né autorità per farlo. Ma una cosa penso di poterla dire:

l’odierno fallimento che si riscontra nell’arte sacra deriva dalla mancanza di libertà dell’artista, dalla sua solitudine, dalla sua pavidità e dal potere del denaro.

I talenti naturali non mancano, ma in genere gli artisti sono messi in condizioni tali da non poter svilupparli.
Sembra che l’artista non sia necessario a nessuno. Ma può essere necessario a se stesso. E se lavori perché l’arte diventi tua, per te stesso, soldi e successo diventano cose molto secondarie.

Dall’almanacco «Dary», n. 6, 2020

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