Adol’f Ovčinnikov: «L’icona salverà il mondo»

Adol’f Ovčinnikov

In occasione dei suoi 88 anni, compiuti il 19 dicembre, pubblichiamo un’intervista fatta alcuni anni fa ad Adol’f Ovčinnikov, restauratore e maestro iconografo che ha segnato profondamente la storia della nostra Scuola.

Che senso ha dipingere icone oggi, secondo una tradizione antica di secoli?
Per quanto gli stili iconografici possano cambiare nel tempo – e in effetti sono cambiati moltissimo – tuttavia l’icona resta in qualche modo una realtà al di sopra del tempo, e la sua lingua, che i contemporanei definiscono troppo frettolosamente «conservatrice», non è assolutamente tale: la stabilità della tradizione non deriva da una tendenza conservatrice, ma deriva dal fatto che la verità divina non è soggetta alla manipolazione dell’uomo; ogni artista fa quello che può (e per questo cambiano gli stili), nel tentativo di imitare l’unica vera icona, quella dipinta da Cristo stesso nell’Incarnazione.

Perché l’icona è necessaria oggi? Io credo che nell’icona sia racchiusa tutta l’esperienza, spirituale e non solo spirituale, dell’umanità, e se noi impariamo a leggere correttamente le icone vi troveremo tutte le ricette che possono salvarci dal caos contemporaneo.

Come è avvenuto per lei l’inizio di questa «lettura», l’incontro con il mondo dell’icona?
Ad essere sincero, in questo non ho molti meriti, anzi non ne ho nessuno; devo tutto all’educazione avuta nell’infanzia da mio nonno, un uomo profondamente religioso. Poi sono venuti la guerra, le difficoltà, i problemi dell’adolescenza… e quanto più cresceva il disagio del mondo che mi attorniava, tanto più mi veniva spontaneo di ritornare ai modelli proposti a suo tempo dal nonno. Di per sé lui non aveva mai avuto niente a che fare con le icone, era semplicemente un uomo di fede; io quindi non ho scelto niente (e del resto come si può «scegliere noi» la religione?), piuttosto sono stato scelto, visto che sono stato battezzato appena nato.
Adol’f OvčinnikovLe prime icone che ho visto erano appunto le icone del nonno: certo, si trattava di icone tardive, quasi contemporanee, ma venivano guardate e trattate come icone, e cioè non come opere pittoriche ma come tesori sacri, come segni della presenza divina davanti a cui si pregava. Quando il nonno morì – io allora avevo dodici anni – non avevo mai visto icone antiche, come quelle di cui mi occupo ora come restauratore… Per quanto, cosa strana, mi balena nella mente un ricordo, di cui raccolgo a fatica i frammenti: il nonno e io veniamo accompagnati fuori dalle sale e messi alla porta della Galleria Tret’jakov perché il nonno si era inchinato a baciare le icone in esposizione, come avrebbe fatto in chiesa, perché, ripeto, per lui erano qualcosa di sacro. Eppure, anche se queste impressioni infantili non mi erano rimaste particolarmente impresse, col passar degli anni mi è venuto spontaneo tornare, come dicevo, ai modelli indicati dal nonno. A tutt’oggi gli sono molto riconoscente, ad esempio, di non avermi mai permesso di entrare nei pionieri o negli ottobrini, anche se allora, ricordo, a me sarebbe piaciuto avere i distintivi che avevano tutti e così via.
Mentre frequentavo la scuola d’arte mi ero già occupato di arte medioevale, sebbene allora mi interessasse tutto, in modo disordinato, dall’arte antica, al rinascimento, all’impressionismo. Dopo il servizio militare, lavorando come decoratore di interni, avevo scoperto quasi per caso il restauro della pittura a tempera, poi trovai un posto di lavoro come restauratore al Museo storico di Mosca: e dal primo momento in cui vidi «dal vero» delle icone autentiche, immediatamente ne fui affascinato, nel modo più inesperto e barbaro cominciai immediatamente a studiarle, a copiarle, perché non potevo sopportare l’idea di non averle sempre sotto gli occhi. Certo, queste icone non avevano niente a vedere con quelle del nonno, scure, annerite, ricoperte di rize metalliche, appese in alto all’angolo della parete e illuminate da una piccola lampada a olio: da queste icone antiche emanava una tale forza di luce, di colore, di espressione, che tutto l’impressionismo, tutto il rinascimento che fino a quel momento mi avevano tanto interessato si volatilizzò in un istante, mi divenne del tutto inutile.

Questo momento così intenso e burrascoso nella mia vita, la mia permanenza al Museo storico, durò sì e no un mese, finché venne un restauratore, Filatov, mi vide mentre copiavo, e mi invitò a venire a lavorare qui, nel centro di Restauro Grabar’, dove poi ho lavorato tutta la vita.
Quando mi chiedono: «Ma dove hai imparato?», non so bene che cosa rispondere. Certo, alla scuola d’arte avevo studiato pittura monumentale e così via, ma in realtà ho imparato solo dalle icone, alla loro stessa scuola.

Che cosa vuol dire imparare dalle icone? Vuol dire smontare in qualche modo il loro meccanismo interno, studiarle pezzo a pezzo dal di dentro, esaminandone al microscopio i pigmenti colorati, ripercorrendo il movimento delle pennellate del loro autore fino ad introdursi nell’essenza più intima dell’icona: proprio in questo modo mi sono accorto che senza i pigmenti minerali che riflettono la luce, senza alcune specifiche concezioni è impossibile dipingere un’icona, resterebbe unicamente un manichino.

Quindi, parlando seriamente, io ho imparato soltanto copiando le icone: e non parlo di una «copia» esteriore (certo, ho cominciato da quella), ma del lavoro di «copia» della struttura, che studia e ripete l’icona nei materiali, nella tecnica, nella maniera pittorica.

E dopo essere penetrati nel profondo della tecnica, della materialità, quando si intuisce che tecnica e filosofia, concezioni sottese all’icona sono inseparabili, sono un’unica realtà indivisibile, si comprende che lo strumento primo e più indispensabile è la teologia, perché senza teologia anche la tecnica non ha nessun senso, nessun significato: è la teologia che guida e determina continuamente la tecnica in tutti i suoi aspetti ed elementi.

Può approfondire il significato di questo lavoro di «copia-ricostruzione»? Infatti tra noi è invalsa l’abitudine di intendere l’arte come il regno di una sovrana spontaneità, e l’attenersi a dei modelli come una pedissequa e meccanica imitazione, che esclude ogni creatività.
Chi dice così provi un po’ ad esprimersi senza usare parole altrui, ma solo parole inventate da se stesso… oppure provi a negare l’originalità dell’esecuzione di un grande musicista, che pure suona ed interpreta una musica composta da altri. Copiare per me significa soprattutto leggere.
L’icona è sempre l’imitazione fedele di modelli precedenti, in cui i cambiamenti che si innestano, prodotti dal tempo, dal gusto ecc., quasi mai vengono apportati appositamente, per essere originali; questo perché si tratta di un’arte comunionale, ecclesiale, anonima; le firme degli autori si trovano solo in casi eccezionali, quando si tratta di opere tardive, oppure per un’esplicita volontà del committente.
Nel XVIII secolo Simon Ušakov firmava le sue opere, ma né Teofane il Greco, né Andrej Rublëv ebbero mai il bisogno di firmare, e non perché fossero eccessivamente modesti: no, semplicemente perché era ingiusto, artificioso.

L’icona è un segno misterioso della Presenza di Cristo, la gente pregherà davanti a questa effigie, come posso pretendere che preghino di fronte a un oggetto uscito dalle mie mani? L’icona non è opera mia, io sono semplicemente l’intermediario fra l’unico Maestro, l’unico Iconografo, Cristo, e la Chiesa.

Adol’f OvčinnikovFirmare l’icona è una contraddizione concettuale, è il segno di una concezione materialista, come appunto si verificherà nel Rinascimento, quando l’uomo viene sentito come demiurgo: ma allora, appunto, davanti al quadro non si pregherà più. L’icona invece non viene sentita come l’opera del singolo artista, che è uno strumento, un pennello nelle mani di Dio e, come tale, farà di tutto per lasciare in secondo piano la sua personalità individuale, la sua emotività e sensibilità particolare, perché possa risaltare in tutta la sua evidenza la bellezza e la concezione divina a cui dà carne: come in un coro polifonico le singole voci quasi si annullano, per dar vita all’idea universale che tutte le comprende e fonde. Ripeto, si tratta di un’arte comunionale, ecclesiale, e tutti i discorsi sulla dignità o meno del copiare rivelano semplicemente l’ignoranza dei contemporanei sull’arte. Oggi si ha una concezione di arte puramente materialista: parlando di arte cioè si pensa all’arte sorta in un mondo materialista, basato sulle concezioni del profitto e della concorrenza, che elimina chi arriva per secondo.
Nell’arte medioevale invece tutti concorrono a costruire l’unica Chiesa, il piccolo monaco sconosciuto come Teofane il Greco: per questo appariva ridicolo apporre il proprio nome su ogni mattone della grande costruzione, sebbene anche nel Medioevo esistessero il senso dell’ambizione, la coscienza di una gerarchia di talento pittorico, la notorietà. Era però un altro mondo, un’altra concezione dell’arte: e oggi dobbiamo ritornare a quel mondo, ritrovare quel mondo, e non solo in rapporto all’icona.
Pensiamo ad esempio a come la Chiesa, nel Medioevo, invitasse i migliori artisti a dipingere icone e affreschi, chiamando maestri di eccezionale talento fin da Bisanzio, e discernendo con grande acutezza il valore e la bellezza delle loro opere. Perché?

Era chiaro che la bellezza dell’icona non è una bellezza quotidiana, terrena, ma è un’ascesa verso il Creatore, un’arte comunionale, ecclesiale, che riporta al Creatore tutti quanti, esecutori e spettatori, in un’unità dove è difficile stabilire chi sia l’autore, l’artista o coloro che completano l’icona con le loro preghiere e la loro fede.

Qual è allora il compito di un artista religioso, oggi?
Il primo compito è quello di ripristinare l’eredità che abbiamo ricevuto, semidistrutta, pressoché in frammenti, di ricostruirla lentamente e con pazienza, di imparare a leggerla correttamente; dobbiamo innanzitutto cominciare a raccapezzarci in questo alfabeto, decifrare ciò che questi uomini volevano dire. E questo comporta un enorme dispendio di energie, tanto più se si pensa alla distrazione continua in cui vive l’uomo di oggi, attratto da un’infinità di sciocchezze che gli assorbono tutta la vita.

Le ha «copiato» il programma di affreschi di otto chiese, e ha portato a termine la pittura dell’iconostasi della cappella della Trasfigurazione a Villa Ambiveri. Quale bilancio si sente di trarre dal suo lavoro?
Si è trattato di esperienze molto diverse, sebbene anche qui io non abbia inventato nessuna composizione, ma abbia preso i disegni delle icone della chiesa di san Demetrio a Pskov: non solo, conosco benissimo gli originali per averli maneggiati e restaurati a lungo, per averne eseguiti tutti i calchi, annotando quali minerali e in quali proporzioni vi fossero impiegati. Era lo stesso modo di lavorare degli antichi: noi adesso vediamo solo una minima parte, una specie di summa delle loro opere, e quindi si può ricavare l’impressione che ciascuno creasse qualcosa di nuovo: in realtà erano decine, centinaia le opere pressoché identiche… ma del resto non identiche, perché la stessa melodia non viene mai eseguita in modo perfettamente identico due volte.
Ebbene, tutto questo materiale l’ho riversato in questo lavoro, cercando di far sentire il meno possibile la mia ingerenza personale nell’opera; non si è trattato di un lavoro di «copia» in senso stretto, eppure si è trattato di un vero e proprio lavoro di «copia» interna, adattata naturalmente alle esigenze del luogo in cui l’iconostasi doveva essere collocata.
Già prevedo i rimproveri che mi verranno rivolti: un iconografo ortodosso dipinge un’iconostasi per dei cattolici!… Mi sento di rispondere tranquillamente che nel XV secolo dei pittori pskoviani accettarono senza esitazioni l’incarico di affrescare la cappella del castello di Wawel, a Cracovia. In quest’epoca di scandali e polemiche dialettiche, finché continueremo a voler esporre a parole le nostre concezioni, non avremo alcun successo, non saremo capiti;

la Chiesa autentica ha sempre lavorato contro gli intrighi politici, e anche oggi dobbiamo salvarci, purificarci da questa abitudine a identificare l’unica religione del nostro tempo con una sorta di politica o diplomazia ecclesiastica.

Per poter giungere ad un accordo sostanziale bisogna che ciascuno dica la cosa che sente come più importante; quando io dipingo, non penso per chi dipingo l’icona: in quel momento davanti all’icona ci sono io, sono io che devo comprenderla e penetrare nel profondo del suo significato, e solo allora, forse, sarò in grado di testimoniare qualcosa a qualcuno. Ma anche in questo caso non sempre le cose riescono: e chi sono io, in fondo, un pover’uomo, un peccatore, continuamente distratto e dissipato da mille cose!… Ma quando accade, Dio mio, come è subito evidente a tutti, a me e agli altri, è una scoperta, una rivelazione per tutti, e tutti, almeno per un istante, diventano più uomini.

Adol’f Ovčinnikov

Lavori per l’installazione dell’iconostasi nella cappella di Villa Ambiveri.

Qual è secondo lei la nota, l’accento fondamentale che caratterizza l’iconostasi e questa iconostasi in particolare?
Il significato fondamentale dell’iconostasi, qualunque sia il numero delle icone, le loro dimensioni e la struttura compositiva, è sempre il medesimo: la raffigurazione di

Cristo e della Madre di Dio. La differenza sta nella sfaccettatura, nell’approfondimento di questa raffigurazione, che però, per quanti che siano gli episodi che la narrano, deve essere sempre unitaria, integrale: l’iconostasi è in realtà un’unica icona, che racchiude l’Incarnazione, la Passione redentiva e la Resurrezione di Cristo, e con lui dell’umanità intera. Questo è il compito primo dell’iconografo; ne consegue poi il compito di rispecchiare attraverso la tecnica questa profonda unità, organizzando il colore, la luce, la composizione, le linee: tutto in funzione di quest’unità, in cui ogni elemento esprima come sua consistenza più profonda il sembiante di Cristo.

Lei parla di unità nella multiformità, come risultato del lavoro iconografico; si può dire che questa stessa formula – unità nella multiformità – rispecchi anche il metodo di lavoro nella brigata di iconografi, nel Medioevo come anche, almeno per tentativi, oggi?
Esattamente. Gregorio di Nissa esprimeva stupendamente questo concetto dicendo che se la cetra avesse tutte le corde uguali ed ugualmente tese, sarebbe impossibile ricavarne una melodia. La stessa identica cosa si verifica nella vita e nell’arte; l’arte comunionale, ecclesiale, si differenzia profondamente dall’arte collettiva perché in quest’ultima i singoli sono chiamati all’uniformità, e ogni pluralità viene sentita come un attentato all’unità (è un concerto di soli tamburi), mentre nella comunione ecclesiale tutti sono importanti, essenziali alla sinfonia comune, proprio perché diversi, unici, irripetibili.

Non c’è idea, concetto, realtà che si possa esprimere con una sola nota, un solo timbro, un solo colore, e l’arte ecclesiale, comunionale è appunto questa multiformità di corde, di sfumature, di melodie, tutte volte però ad uno scopo profondamente unitario, quello di elevare l’uomo al suo Creatore.

Per ripristinare oggi il clima che si respirava nelle antiche brigate artistiche medioevali occorre molto più tempo di quanto possiamo immaginarci. Non si tratta infatti solo dei settant’anni di potere sovietico: si pensi ad esempio al lavoro antireligioso e di scristianizzazione nella Francia del ‘700-800; le rivoluzioni sono state solo il culmine, la deflagrazione conclusiva di un processo che in realtà durava da tempo e aveva messo salde radici nella mentalità della gente. E in questa deflagrazione tutta la tradizione, la ricchezza spirituale è andata in frantumi, si è polverizzata; per fortuna però la tradizione spirituale è una materia ben difficile da distruggere, e subito dopo lo scoppio comincia a ricomporsi, a riaccostare i frammenti, anche se, certo, questo lavoro di paziente ricostruzione richiede molto tempo.

Adol’f Ovčinnikov e Romano Scalfi

Con padre Scalfi, a Villa Ambiveri.

Già oggi esistono delle brigate di artisti che tentano di ripercorrere le antiche vie, e forse non è nemmeno necessario ripercorrerle in toto, bisogna piuttosto assimilarne l’esperienza, il significato. Una delle lezioni fondamentali che dobbiamo ricavare dalle antiche brigate, io credo, è la capacità di lavorare insieme senza spirito di rivalità, di rallegrarsi del successo altrui come del proprio, di amare l’opera più della propria riuscita… finché non si impara a pensare così non si può essere realmente degli iconografi. E per questo non occorre affettazione, non bisogna simulare niente, è necessario piuttosto ridare alle cose il loro giusto valore, la gerarchia vera. Magari si è tutti soddisfatti per aver dipinto una certa icona, ma appena cade l’occhio sulle opere antiche ci si accorge di quanta semplicità, di quanta serietà, di quanta profondità, di quanta prodigiosa bellezza vi sia raffigurata (e non parlo di opere di Teofane il Greco o di Rublëv, per carità, ma di icone forse dipinte da un umile monaco, in un angolo remoto della Rus’), e ci si chiede: «Ma che uomini erano quelli, per poter vedere e dipingere cose del genere?». Non che fossero migliori di noi, è che riconoscevano qualcosa sopra di loro.

Invece oggi proviamo a pensare quanto spazio occupano nei cervelli infinite sciocchezze: se Teofane il Greco venisse ad affrescare le chiese, probabilmente lo scaccerebbero, perché dipingerebbe dei profeti infuocati invece dei Babbo Natale, delle Madonnine azzimate e leziose che vanno di moda.

Che cosa significa allora per l’uomo di oggi (penso anche, ad esempio, ai maestri e agli alunni del nostra Scuola iconografica) avvicinarsi all’icona? Come si può tornare alla sincerità, all’autenticità, alla profondità spirituale di questo mondo?
L’icona – e non mi sembra assolutamente di esagerare – rappresenta la salvezza per il mondo odierno; e non dico così perché mi piacciono le icone, no, semplicemente vedo in essa il principio della vita spirituale in cui è contenuta la salvezza. Dipingere l’icona è un cammino spirituale, un’ascesi interiore che va di pari passo con il cammino di maturazione artistica.
L’icona può nascere solo da una sofferenza, da un travaglio interiore, dalla serietà di chi guarda in volto la vita e la morte (strano a dirsi, ad esempio, ma la maggior profondità di espressione nell’icona la raggiunge una mia alunna, chirurgo, che peraltro ha una tecnica molto più imperfetta di altri).

Quando all’antico iconografo un’icona riusciva male, lui si spiegava l’insuccesso riconoscendo di aver peccato, di non aver pregato abbastanza. L’icona era il compito della vita, l’ascesi a cui si dedicava tutta la vita, in tutti i suoi aspetti; oggi invece è un hobby, che si pretende di coltivare fra le tante cose che piacciono e interessano.

Il primo passo per l’uomo d’oggi è quello di contemplare i tesori artistici del passato, immergersi in essi per assorbirne il significato. Se nelle antiche Vite leggiamo che il beato Andrej Rublëv insieme ai suoi confratelli d’arte passava ogni minuto di tempo libero nella contemplazione delle icone (eppure vivevano immersi in quel mondo, ne respiravano il clima spirituale!), quanto più l’uomo di oggi deve fare uno sforzo di concentrazione per sfuggire alla mentalità dominante e ritrovare un linguaggio autenticamente umano, ritrovare la verità, la bellezza!

Il segreto dell’icona è proprio in questa profondità umana, in questa sincerità di contemplazione del divino, che noi a volte avvertiamo in icone dipinte in modo primitivo, con colori di cattiva qualità… la tecnica è una questione secondaria, che si corregge facilmente, una volta però che si intuisce il cuore, il nucleo più profondo e segreto dell’icona.

Qualunque tecnica, senza la ricerca dell’essenza più profonda della vita si riduce ad una serie di trucchi senza significato: ma non si può carpire l’essenza della vita a suon di trucchi. I trucchi bisogna conoscerli, la tecnica bisogna conoscerla, ma a dipingere l’icona sono sono né gli uni né l’altra… per questo però, io credo, occorreranno due o tre generazioni, solo per riscoprire e ripristinare l’alfabeto, i rudimenti di questo linguaggio. A questo è volto tutto il mio lavoro di «copia-ricostruzione»: da anni sto accumulando materiale iconografico, copie-ricostruzioni, per creare una sorta di banca-dati (mi si perdoni l’espressione!) di questo antico linguaggio in gran parte caduto in disuso.

Adol’f Ovčinnikov

È questo anche il tentativo che da qualche anno, grazie anche al suo aiuto, sta compiendo la Scuola iconografica di Seriate. I nostri maestri in qualche modo sono tutti suoi alunni: che valutazione può dare della Scuola e del lavoro portato avanti dai singoli?
Una scuola di questo genere era già esistita nell’XI secolo, quando i crociati sul Sinai cominciarono a studiare e a dipingere le icone, intraprendendo un’opera di portata immensa. La Scuola di Seriate mi sembra altrettanto preziosa dell’antica Scuola del Sinai, tanto più in un’epoca in cui (a differenza dell’XI secolo quando le icone erano moltissime) si è smarrito il significato e il linguaggio stesso dell’arte cristiana.

È preziosa la passione, il desiderio di queste persone, anche se per camminare su questa strada ognuno deve lavorare molto su di sé, riplasmare la propria persona, il proprio gusto e la propria mentalità.

Ma posso dire che in tutti questi anni, attraverso il lavoro comune, a Seriate o presso il Centro Grabar’ a Mosca, hanno fatto molti passi nella direzione giusta. Oggi c’è un piccolo nucleo di persone per cui l’icona non è un hobby, ma, se così si può dire, l’opera della vita: si tratta di persone (indipendentemente anche dal livello e dalle capacità tecniche, che possono crescere con il tempo, non è un problema) che hanno fatto una scelta di vita, hanno maturato un’esperienza di fede, di vita ecclesiale, e ne hanno fatto il cardine della vita personale, della vita comune e delle scelte artistiche.

La fraternità che vivono fra di loro è il fondamento, il rimanente non può non venire di conseguenza, e viceversa se si eliminasse questo aspetto tutto crollerebbe, ogni risultato artistico individuale non varrebbe nulla. L’elemento più prezioso di questa Scuola è l’unità, la corresponsabilità creatasi, la grande libertà e, grazie a Dio, l’assenza di spirito di rivalità.

Io credo che senza la Scuola di Seriate oggi non esisterebbe neppure l’iconostasi che ho dipinto, perché in fondo l’ho dipinta pensando alla comunità che qui prega, lavora, per lasciare un’impronta e indicare un’ipotesi di lavoro a persone che condividono il mio stesso amore e il mio stesso sforzo.

Non le sembra strano che lei, russo, ortodosso, si sia trovato ad essere il maestro di un gruppo di artisti italiani, per di più cattolici?
Credo che sia parte del comune lavoro missionario: del resto è una collaborazione fra ortodossi e cattolici che si era già verificata in passato, in epoche più sobrie e più religiose (ho già menzionato l’opera degli iconografi di Pskov a Cracovia). Quando la gente invece, come oggi, fa di tutto per costruire steccati e divisioni, si smarriscono i rapporti umani e la possibilità di lavorare in modo giusto, adeguato. Tanto più se si pensa che il cattolicesimo, l’Occidente, solo in un passato piuttosto recente ha abbandonato l’icona, che fu per secoli suo preziosissimo retaggio; se il cattolicesimo vuole tornare alle proprie origini, alle sue radici più profonde e autentiche, così come la nostra ortodossia ha bisogno di ritrovare il suo volto autentico, la spiritualità del XIV-XV secolo, non può non riandare alla profondità spirituale e umana che ha generato i grandi capolavori dell’arte comune, ecclesiale, dei primi secoli.

Giovanna Parravicini

 

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