In Russia un gruppo di giovani artisti ripensa creativamente il rapporto fra arte ed esperienza cristiane.
La grande mostra di arte sacra ospitata nel centralissimo spazio espositivo moscovita «Zarjad’e» fino a fine gennaio è l’esito di un progetto espositivo esistente da ormai cinque anni, il «Post-icona», che ha trovato accoglienza in varie città della Russia raccogliendo le reazioni più disparate – dall’entusiasmo alle accuse di blasfemia.
L’intento da cui sono partiti i suoi promotori, in primo luogo Anton Belikov, è una riflessione sul senso dell’icona e dell’arte sacra in generale per l’uomo di oggi, e di conseguenza un tentativo di non limitarsi a copiare modelli del passato ma di ripensare creativamente il rapporto fra arte ed esperienza cristiana, fra arte e le domande fondamentali dell’uomo di oggi. Proprio questo, indipendentemente dagli esiti, di cui i lettori potranno giudicare in base ai materiali fotografici disponibili, ci sembra il valore dell’esperimento. Del resto, come Belikov ha sottolineato in una recente intervista, il progetto è sorto e ha vissuto una notevole evoluzione, che l’ha portato a discostarsi sempre più dall’icona per trovare forme espressive nuove, tra cui, in particolare, la street art.
All’icona, e al «post-icona», Belikov è arrivato dopo un lungo percorso: inizialmente, una laurea in filosofia («…ma subito dopo ho capito che non avevo nessuno sbocco. A chi servivano i filosofi nel 2000-2001?»), a cui sono seguiti poco più di un decennio di attività nelle pubbliche relazioni, nel campo della moda e dello sport, e infine la decisione di piantare tutto («mi ero reso conto che far carriera significava infrangere regolarmente, quotidianamente qualcuno dei dieci comandamenti») e andare nel deserto, sul Sinai, insieme alla famiglia.
Qui, durante la permanenza di circa un anno, è avvenuto il primo incontro con l’icona. «Sebbene – precisa Belikov – già in precedenza probabilmente stessi muovendomi in questa direzione. Sentivo che il linguaggio figurativo dell’arte sacra è ciò che può avvicinarci alla comprensione di qualcosa di grande e importante che esiste nel creato e che in qualche modo intuivo, a cui volevo prestare ascolto – un’esperienza interiore di quello che oggi chiamerei senso religioso. Volevo affrontare seriamente la questione, e in pratica mi sono trovato a fuggire da Mosca, incapace di sopportare tutto quello che vedevo. Tutto mi sembrava mostruoso e malvagio: la gente, l’architettura urbana, i rapporti, gli affari, lo sport, l’arte… tutto… Ne sono scappato come si scapperebbe di prigione: dalle guardie, dalle sbarre, dal regolamento, dagli altri detenuti. E mi sono trovato nel deserto. Un luogo di una bellezza incredibile».
Ma il deserto, per Belikov, è soprattutto lo «specchio implacabile che mostra te a te stesso». Se in città si potevano incolpare circostanze e persone del proprio male, della propria disperazione, il deserto rivela che il male è dentro di te. La scoperta dell’icona, in parallelo, il tentativo non semplicemente di conoscerla ma anche di addentrarvisi dipingendola, è in quei mesi tutt’uno con l’intuizione che «l’artista coglie organicamente una sorta di nervo scoperto dell’epoca, che i teorici non hanno ancora compreso, mentre l’artista l’ha già percepito, fiutato».
Di qui la decisione di frequentare la facoltà di arte sacra dell’università ortodossa San Tichon (un’esperienza di due anni, per molti versi infelice), e poi il passaggio all’Istituto d’arte Surikov, l’incontro con il progetto espositivo di Sergej Čapnin e Irina Jazykova «Doni», con le opere di padre Zinon, Aleksandr Soldatov…
Le ricerche di Belikov, tuttavia, non si arrestano a nessuna di queste fasi, pur costruttive della sua esperienza, fino a giungere, insieme a un gruppo di artisti che va progressivamente ampliandosi, ai risultati attuali. È cambiato anche il nome del progetto, inizialmente «L’icona dopo l’icona», che presupponeva la possibilità di un’icona contemporanea, che continui a conservare un’identità iconica.
La prima mostra, allestita nel 2017 insieme alla moglie Marina e a Ženija Kolesnikova (prematuramente scomparsa nel novembre 2021) in un’antica chiesa di Pskov, voleva soprattutto saggiare il rapporto fra l’icona contemporanea e l’architettura antica, il tipo di illuminazione presente in essa.
Poi ci si è mossi scegliendo soprattutto ambienti di tipo diverso, laici, cercando di far interagire l’arte sacra con i luoghi della vita sociale odierna, le «cattedrali del nostro tempo». Oppure luoghi sacri di altre confessioni cristiane, in modo da instaurare con esse un dialogo, secondo una delle concezioni-cardine del gruppo:
«Oggigiorno in ambito culturale lo spartiacque non è innanzitutto fra le diverse confessioni, ma fra credenti e non credenti – osservava Belikov in un’intervista del luglio 2019. – Ci troviamo nella situazione dei primi cristiani, dell’età apostolica, cioè nella necessità di annunciare il Salvatore in un ambiente degradato, che propone l’ateismo e il cinismo come il culmine ideale di sviluppo della ragione umana.
Ci troviamo ancora in una situazione in cui domina la convinzione che esista solo il mondo materiale, e ben pochi hanno la consapevolezza che dietro il velo opaco di questa realtà se ne celi un’altra, autentica e assoluta».
Un punto di svolta è stata la grande mostra allestita dal gruppo nel gennaio 2019 nello spazio espositivo sottostante la chiesa di Cristo Salvatore: un’esposizione di oltre 200 opere appartenenti a più di 30 artisti di diversa formazione, ma accomunati dall’interrogativo di come possa rivivere oggi l’esperienza di Cristo nell’uomo contemporaneo e, di conseguenza, quale linguaggio possa esprimerla. Proprio questa mostra ha segnato per gli artisti l’abbandono del concetto stesso di icona: siamo, appunto, nel «post-icona».
La mostra e il progetto hanno dato adito ad accese discussioni e polemiche, svoltesi purtroppo molto spesso all’insegna di un’intolleranza e violenza da parte di istituzioni e personalità del mondo ecclesiastico che non lasciano spazio a un dialogo di approfondimento e di maturazione di temi che restano di primaria importanza, non solo per i credenti ma per la società.
È più facile strapparti di mano il microfono – sottolinea Belikov, – marchiarti come bestemmiatore e profanatore della sacra tradizione e dei sacri dogmi, che non ascoltare le tue motivazioni e rendere ragione delle proprie…
Tuttavia, per lui non è questa l’ultima parola: «Certo, la Chiesa come istituzione mi suscita delle domande. Ma, più globalmente, mi sembra che la questione sia prendere d’assalto il cielo. È per questo, infatti, che esiste la Chiesa: non può ridursi a un istituto assistenziale per barboni e orfani, a un convitto per signorine per bene, a un’istituzione culturale o a un’impresa economica con tanto di capitale. Se la Chiesa smette di prendere d’assalto il cielo, a che cosa serve tutto il resto?».
Questa espressione, «prendere d’assalto il cielo», che a Belikov piace molto, sta a indicare che «l’uomo è un essere verticale, per quanto condannato a muoversi in orizzontale», è paragonabile a «una corda tesa fra gli inferi e il cielo. Cadere è sempre facile, mentre per elevarsi è necessario uno sforzo, per questo parlo di assalto, di superamento di sé, del proprio marciume, della propria malvagità, durezza… di tutte le tenebre che abbiamo dentro di noi. Non ci si dissolve così facilmente nell’oro del Regno dei cieli. Nella preghiera del Getsemani Cristo deve superare il corpo e le paure ad esso connesse, nel deserto deve superare le tentazioni di Satana. È questo che io chiamo “assalto”».
Il tema dell’arte sacra implica inevitabilmente un giudizio sul cristianesimo.
Per Belikov, fra le sventure del cristianesimo odierno ci sono lo smarrimento della dimensione comunitaria, che è sempre stata una sua caratteristica, e la paura del futuro, il suo rifiuto in nome di una tradizione – o meglio consuetudine assodata: nella locandina di una delle mostre del progetto si legge che «il cristianesimo si è rassegnato a non essere più attuale». «E questo è uno dei sintomi più pericolosi dell’avvizzimento – sottolinea ancora Belikov. – Per me l’idea del futuro è parte organica della dottrina di fede. Sento molto mia l’idea dell’eterna novità e attualità dei comandamenti. E sento molto forte il Natale come l’ingresso di un Dio perpetuamente giovane in un mondo perpetuamente giovane.
L’antichità non mi interessa, mi annoia – mi interessa l’eternità, perchè ciò che è eterno è perpetuamente giovane, e non perpetuamente antico».
Alcuni dei partecipanti al progetto «Post-icona», tra cui lo stesso Belikov e Aleksandr Cypkov, praticano una street art di tipo religioso, e questo suscita non poche critiche, perché è come se si lasciassero le immagini religiose alla mercé dei passanti, che possono ignorarle, imbrattarle o addirittura profanarle. Eppure quest’arte, estremamente vulnerabile, può trasformarsi a parere dei suoi artefici in una nuova forma di annuncio cristiano.
Belikov, in particolare, nel 2016 si è recato nel Donbass e a Zajcevo, una delle cittadine situate sulla linea del fuoco, ha dipinto il ciclo della Passione, sulle pareti di una scuola semidistrutta dagli spari: «Era il posto giusto? Non profaneranno quelle immagini? Non lo so. L’ho fatto perché ne sentivo il bisogno. Senza chiedere il permesso a nessuno».
Giovanna Parravicini
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