Ho provato a rileggere tutto ciò che via via annotavo degli interventi di padre Scalfi durante i corsi di iconografia, dal 1991, anno del mio incontro con la Scuola iconografica di Seriate e con Russia Cristiana, e inoltre quello che lui ci ha indicato durante il lavoro pluriennale con padre Zinon, e quanto ha scritto per l’Iconografo, una rivista mensile che per molti anni ha accompagnato tutti quelli che frequentavano la Scuola.
È stato entusiasmante, perché padre Romano ci inseriva subito in quella che è l’essenza della vita dell’uomo, e ci ricordava il cammino a cui ognuno di noi è chiamato per rispondere appieno all’esigenza di felicità che ci costituisce e alla quale Dio nel suo amore ci ha destinato creandoci.
Cominciamo dal santo jurodivyj: chi è costui?
Lo jurodivyj, cioè «folle in Cristo», è senza dubbio la più singolare ma anche, forse, la più impegnativa e difficile forma di ascesi che un cristiano possa praticare per giungere alla santificazione. Si tratta di asceti o monaci che abbandonano la sapienza umana per scegliere la «sapienza del cuore», si aggirano per le città vestiti di stracci, mortificando il corpo attraverso digiuni e lunghe veglie e dormendo all’aperto o nelle case di chi offre loro ospitalità.
Questo arduo cammino di purificazione interiore consiste principalmente nell’accettare volontariamente o addirittura provocare mortificazioni ed offese, al fine di rendere sempre più salde l’umiltà e la dolcezza di cuore, e far nascere così l’amore anche per i propri nemici e persecutori.
Il «folle in Cristo» combatte contro il peccato e la sua radice che è l’orgoglio, imitando Cristo umiliato e crocefisso. Rifiuta qualsiasi aspetto esteriore che possa apportargli dignità e conseguente rischio di vanagloria, e si mostra miserevole, degno di scherno: il suo ascetismo non dev’essere oggetto di lode umana! I primi santi «folli in Cristo» comparvero in Egitto nel IV secolo e a partire dal VI nell’impero bizantino, in Siria, nell’ambito del monachesimo cristiano; solo in seguito si sarebbero diffusi nelle terre russe.
Ma perché questo richiamo al «folle in Cristo»?
Nell’editoriale del n. 5 dell’Iconografo, del 1992, padre Romano collegava tale forma di ascesi all’arte iconica. Intitolò l’editoriale L’arte e il folle per Cristo. Scriveva: «Al di fuori delle comuni regole di vita per dipendere dalla regola della vita: questo è il principio ispiratore del santo jurodivyi ed è anche il canone estetico dell’arte cristiana.
Lo jurodivyi è tutt’altro che uno stravagante che segue l’estro della sua immaginazione. È piuttosto una persona investita dall’Amore; così determinata dall’Amore divino incarnato che tutta la vita non può che essere calamitata da questo centro infuocato, che tutto illumina e trasfigura.
Non c’è istante che non sia pieno di questa Presenza, nessuna situazione che non sia “informata” dall’incontro con Colui che è il significato primo e ultimo di tutto. L’ispiratore del folle per Cristo è san Paolo: “Io vivo, non sono io che vivo, perché in me vive Cristo”. L’avvenimento che costituisce la “creatura nuova” è il fondamento unico di ogni regola. Contro chi vorrebbe anteporre o porre accanto a questa regola un’altra norma, san Paolo interviene bruscamente in nome della libertà: “Non vale né la circoncisione né la non circoncisione…”; “Chi avrà seguito questa regola avrà pace e misericordia”».
Ed ecco come padre Romano collegava questa forma di ascesi all’arte cristiana: «L’arte cristiana per essere cristiana (e non semplicemente religiosa perché ogni arte per essere tale non può non essere religiosa, magari inconsciamente) nasce dallo stupore di poter cogliere il divino nel tempo e nello spazio della storia. Non un divino astratto impersonale, ma un volto divino-umano che ha un nome carico “d’amore per l’uomo”. Questo è l’unico canone cui l’artista è tenuto ad essere fedele». Infatti,
«preso dentro da questo stupore, l’artista non è tenuto a seguire le regole della prospettiva (la prospettiva inversa è legittima, come è legittima nel “folle in Cristo” ogni stravaganza) ed altre regole. “La vera arte è quella dell’Apocalisse di Giovanni, quella che sa vincere la morte contemplando la risurrezione” (Pasternak)».
Padre Romano e l’icona
Entriamo allora nell’esperienza di padre Romano, proprio perché gli abbiamo visto sintetizzare gli aspetti peculiari dell’icona partendo innanzitutto dalla sua personale esperienza.
Il 3 agosto 1999, durante l’assemblea conclusiva dei corsi iconografici, un momento importante della nostra attività, padre Romano ci diceva:
«Io prego davanti all’icona, è liberante: sono davanti così come sono, senza maschere, certo di essere accolto. Il limite viene superato, perché mi permette di essere ardito nella domanda. Abituarsi a domandare il miracolo è proprio dell’icona, l’icona è miracolosa. L’icona mi permette di ricordare gli amici nella preghiera».
E citava poi questa preghiera della liturgia bizantina: «Nella memoria della nostra Signora, la tutta santa, purissima, più che benedetta, gloriosa Madre di Dio e sempre vergine Maria, e di tutti i santi, affidiamo noi stessi, gli uni gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio», aggiungendo: «Voi siete parte di me e io di loro».
E ancora: «L’icona è una finestra spalancata all’infinito: ci spalanca al “prossimo”, a chi ci è accanto; ci abilita ad amare anche gli altri». Infine, sulla Russia:
«Io vorrei che ci allargassimo anche ad essa; abbonatevi alla rivista. Che l’icona serva anche a spalancarci a questa amicizia concreta che ci caratterizza».
Padre Romano ci ha sempre richiamato a questa accoglienza reciproca, che noi cerchiamo di vivere e proponiamo sempre a tutti. Noi siamo una «fraternità» di iconografi. La nostra festa è la Trasfigurazione. Gioisco nel ricordare che l’icona della Trasfigurazione era proprio la prima icona che l’iconografo scriveva, dopo essersi preparato con il digiuno e la preghiera. «Questo perché – sono parole di padre Romano – l’icona era per la trasfigurazione del mondo. Non soltanto contemplazione, per alimentare la propria spiritualità, certamente anche questo, ma anche simultaneamente per trasfigurare il mondo».
L’icona, rivelatrice del divino
Ma vorrei ritornare al 1991, ad alcune parole dell’Editoriale n. 2 dell’Iconografo, perché qui troviamo il fondamento!
Occorre riprendere tale fondamento: la consapevolezza di esso ci guida a vivere il nostro «incontro» con l’icona in modo veritiero, completo, efficace. Potrebbe infatti nascere in noi l’obiezione: «Perché è importante prendere sul serio l’incontro con l’icona? Non è sufficiente imparare una tecnica?». Padre Scalfi rispondeva così: «“Se l’uomo viene alla luce per partecipare ai beni divini, deve avere una costituzione che lo rende capace di partecipare a quei beni. Come l’occhio è partecipe della luce grazie all’elemento luminoso insito in lui… così era necessario che una qualche affinità col divino fosse innestata nella natura umana” (san Gregorio di Nissa). Ebbene, questa “affinità col divino” costituisce la struttura del cuore umano; il peccato può offuscare, ma non sminuire l’icona di Cristo che è in ogni uomo in questo mondo.
Cristo risponde in modo divino alla nostalgia di assoluto che caratterizza l’umano. L’icona rivela alla creatura il suo nesso sostanziale con il Creatore e nello stesso tempo esprime la modalità con cui la propensione naturale dell’uomo al divino viene soddisfatta in modo umanamente imprevedibile da Cristo: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio”.
Dopo che Cristo ha assunto tutto l’umano, ogni aspetto dell’uomo può essere adeguatamente compreso e vissuto soltanto in Cristo».
Rileggendo queste parole, ognuno di noi riscopre se stesso. L’affinità col divino, che è la struttura del mio cuore, la pienezza cioè a cui io tendo, è «l’icona di Cristo», il divino nell’umano che è in me. Ma non basta: la soddisfazione di tale tensione viene da Cristo, in modo imprevedibile, fuori dai miei schemi oltre che dalle mie capacità. Questa pretesa dell’icona, rivelatrice del divino, è fondamentale. Implica la modalità del nostro porci di fronte ad essa, sia quando la guardiamo e la preghiamo, sia quando la scriviamo.
La contemplazione dell’Archetipo
Nel 2004 padre Romano mi passò gli appunti che aveva steso sul testo di Florenskji, Le porte regali, in cui metteva in evidenza le caratteristiche dell’icona.
In essi ci ricordava che il mondo spirituale, invisibile, non è qualcosa di lontano, ma ci circonda; che siamo come sul fondo di un oceano di luce, eppure per l’immaturità dell’occhio spirituale, per una specie di miopia non notiamo questa luce, anzi non ne sospettiamo neppure la presenza; non intravvediamo l’unità profonda fra realtà e mistero, tra l’oggetto e il suo significato; tuttavia, il cuore ci fa percepire di «essere nella luce».
Quindi attenzione: la pittura, e più in particolare l’icona, può essere «più di se stessa» o «meno di se stessa».
La pittura ha sempre lo scopo di spingere lo spettatore, oltre il limite dei colori e del materiale, verso un’altra realtà, costituisce una «finestra aperta sull’infinito».
Tanto più questo avviene per l’icona: «finestra aperta sull’infinito», ma anche fonte di luce per noi che ci ritroviamo spesso in una camera in cui le tenebre hanno preso il sopravvento.
In quel contesto, padre Scalfi citava anche una frase di Tarkovskij: “«È come ti fossi accostato ad un divino nascosto», che commentava così: «È una delle tante geniali intuizioni di Tarkovskij. In poche parole riesce a presentare il cuore del canone iconografico. Un divino nascosto che rimane misterioso ed è indefinibile, apofatico (cioè indicibile), ma che si può accostare, si può toccare!».
Che cosa occorre per mettersi davanti all’icona senza limitarne il significato? Anche su questo padre Romano ci guida all’essenziale. Scriveva: «La comprensione del vero e del bello dipende dalla mia disponibilità a lasciarmi illuminare, affascinare, dalla mia iniziativa di spalancare la finestra o dalla mia scelta di vivere nell’oscurità: in questo caso nessun quadro mi potrà commuovere, nessuna realtà sarà in grado di colpirmi. Nell’oscurità non esiste traccia di bellezza, né gusto per la vita».
«Occorre “un desiderio sconfinato ed un amore incorruttibile” (Florenskji), lo stesso che occorre per sperimentare la bellezza della vita, e la bellezza è inseparabile dalla verità, è “lo splendore del vero”. Certo, è un cammino vivere l’amore come gratuità, ma d’altra parte l’amore non è tale se non è connotato dalla gratuità: se c’è il tornaconto non è più amore, non si vive l’amore, non se ne fa esperienza. Occorre contemplare sempre l’archetipo».
Quando ci parlava di questi temi, in genere ci chiedeva:
«Come può un iconografo scrivere un’icona se non ha contemplato l’Archetipo, se non ha conoscenza del Modello?»,
e non una conoscenza soltanto intellettuale, ma la conoscenza del cuore.
«La preghiera non è qualcosa di estraneo ma è essenziale nell’arte di imparare a scrivere l’icona»,
una preghiera come rapporto vivo e familiare con Colui che è presente qui e ora.
E sono arrivata alla conclusione, cioè al compito che ci indicava, come iconografi: «Dall’immagine all’Archetipo» e dall’Archetipo alla vita. «L’iconografo ha un impegno particolare: non solo scrivere l’icona, ma viverla». Era quanto padre Romano ci testimoniava sempre. Innanzitutto con la sua vita, consacrata a Dio e alla Chiesa. E poi nel modo con cui si rapportava a noi, nella quotidianità, nell’esserci vicino e nell’aiutarci nelle difficoltà della vita, nel richiamarci a una convivenza fraterna, avendo sempre davanti agli occhi l’Archetipo.
Amelia Limata